DI PIU’: Mi dicevano che non c’erano speranze, invece il computer mi ha salvato!

BACENO – “Ventitrè anni passati su una carrozzina a rotelle: una vita. Nessuno può immaginare che cosa significhi vivere ventitré anni in questo modo per una diagnosi sbagliata. Da disabile! eppure adesso mi pare di sognare. Quei tempi, per fortuna, mi sembrano ora così lontani”.

Stefania Vanini sorride, mentre inizia a raccontare la sua storia che ha dell’incredibile. Ora, a 35 anni, conduce una vita normale: si muove, cammina, addirittura salta nella sua casa di Baceno, in provincia di Verbania, com’é giusto che sia. Soltanto tre anni fa, però, sembrava definitivamente condannata a stare su una sedia a rotelle. Se non è più cosi deve ringraziare solo se stessa e la sua caparbietà. Ha scoperto che il vero male era curabile, che i medici avevano sbagliato la diagnosi e le medicine che prendeva l’avevano condannata a una vita impossibile.

Si, Stefania Vanini ha passato ottomilatrecentonovantacinque giorni a lottare contro il male che le era stato diagnosticato all’età di 9 anni: Atassia! una malattia neurologica che provoca la mancanza di coordinazione nei movimenti e impedisce quelli volontari. Invece, Stefania non ha mai avuto questa malattia, ed è stata proprio lei a scoprire la terribile bellissima verità. Lo ha fatto quasi per caso, navigando in Internet, grazie alla sua curiosità e alla sua voglia di vivere.

«Avevo solo 9 anni quando mi ricoverarono per la prima volta in un Istituto Neurologico», ricorda «ma sin dalla nascita la mia vita non era stata facile. Camminavo sulle punte, tutta piegata sulla destra, facevo qualche passo avanti, quindi tornavo indietro. Nessuno dei Medici che i miei genitori avevano interpellato fino ad allora aveva saputo spiegare di che cosa soffrissi veramente, anche perché i sintomi andavano e venivano. Poi, dopo nove anni, arrivò il primo ricovero e la diagnosi: “Sospetta Atassia spastica familiare”. “Le sue condizioni peggioreranno sempre di più con il passare del tempo”, dissero i Medici “Bisogna che si rassegni: sarà costretta all’ immobilità completa. Il suo futuro prossimo è la sedia a rotelle”».

Una condanna agghiacciante per una bambina. Come reagì?

«Quella sedia a rotelle era il mio dolore più grande, la mia umiliazione più profonda. Non l’avevo mai accettata, non volevo mostrarla a nessuno. Nelle foto scolastiche mi appoggiavo ai compagni per fare vedere che anch’io potevo stare in piedi, che ce la potevo fare, che ero “normale”. Quando finivano le lezioni me ne stavo seduta al banco e uscivo per ultima dalla classe: non volevo mostrare a nessuno che impiegavo un’eternità a raggiungere la porta dell” aula C a salire sulla sedia a rotelle».

Chi l’ ha aiutata a sopportare questa vita per ventitré anni?

I miei genitori e mio fratello, che ha due anni più di me. I miei amici. Mio padre mi ha sempre portato in giro sulle spalle, anche quando ormai ero diventata grande, per mostrarmi quello che vedevano tutti gli altri, per farmi sentire il più possibile “normale”. I miei amici, poi, sono stati fantastici. Anche quando mi rifiutavo di uscire e dicevo che non avrei potuto fare quello che tutti gli altri facevano, loro mi trascinavano letteralmente fuori di casa, in discoteca, al ristorante.

“Ti portiamo dove vuoi”, mi dicevano. Fino alle scuole medie tutto bene, o quasi. Crescendo ho cominciato a capire che ero una “diversa”. Alle superiori, dietro di me sentivo le risatine dei compagni. I ragazzi molte volte sono crudeli. Per la vergogna non uscivo più di casa. Non mi accettavo più. Un giorno ho cercato di reagire, ma la realtà é stata ancora più dura. Sono entrata in una pizzeria, naturalmente mi muovevo piegata, tutta storta. Il titolare ha pensato che fossi drogata e mi ha sbattuto fuori. Quando gli ho spiegato che ero disabile, mi ha gridato in faccia che nel suo locale la pizza la davano gratis ‘agli handicappati’».

Un episodio che avrebbe annientato chiunque.

«Sì, fu bruttissimo: ero inconsolabile. Se non fosse stato per i miei genitori, per i miei amici, ripeto, mi sarei davvero ripiegata su me stessa, tra le quattro mura di casa. Per fortuna avevo la fede in Dio che mi aiutava. Pregavo. Piangevo e pregavo. Soltanto la preghiera mi era di conforto. Gli amici non hanno lasciato nulla di intentato: esami, visite in ogni possibile ospedale. Speranze e delusioni. Poi, a 19 anni, mi confermarono la diagnosi di Atassia: avrei dovuto accettare il fatto che sarei rimasta su una sedia a rotelle per sempre. Stranamente, fu allora, nel momento più disperato, che compresi che non potevo abbattermi, che dovevo trovare la forza di andare avanti e che, nonostante la malattia, non dovevo perdere la speranza. Mai.

Così iniziai a lavorare come impiegata comunale: un posto part-time, considerata la mia invalidità al cento per cento. In particolare, però, scoprii lo Sport.

Ero una disabile e quindi dovevo accettare la mia condizione. Decisi perciò di allenarmi allo scopo di partecipare ai Giochi per disabili in tre specialità olimpiche: lancio del peso, del giavellotto e del disco.

Poi cominciai a viaggiare. Trascorsi due mesi in California con un mio amico, pure lui disabile.

Andai anche in Egitto e in Norvegia. Registravo tutte le mie emozioni, i miei pensieri su un diario dove, dal 1990, ho scritto giorno per giorno quello che capitava. Una vera e propria storia della mia malattia. Ero disabile, ma viva».

Poi un giorno la sua vita arriva ad una svolta. E’ così?

«Sì, era il 12 novembre 2000 e avevo da poco compiuto 30 anni. Digitai su Internet le parole della diagnosi della mia malattia: “sospetta Atassia”. Scoprii così che i sintomi e i progressi qui descritti non erano quelli di cui soffrivo.

Cominciai così a riflettere. Continuai a navigare e in un sito lessi che con l’esame del DNA, cioè il patrimonio genetico, era possibile capire le origini di un male come il mio. Spensi il computer e andai decisa all’Istituto Neurologico “Besta” di Milano. “Voglio essere sottoposta all’esame del DNA”, chiesi. I Medici mi guardarono perplessi, ma il mio sguardo fermo e impassibile li convinse ad accontentarmi. “Tra due anni ti faremo sapere se abbiamo trovato qualcosa”, mi dissero i Medici salutandomi».

E dopo, che cosa accadde?

«A due anni di distanza esatti da quella ricerca su Internet, il 12 novembre 2002, fui chiamata dalla dottoressa Paola Soliveri, una donna eccezionale. E la mia vita cambiò in un colpo solo».

Che cosa avvenne di preciso?

Un fatto incredibile, inimmaginabile: ho ancora i brividi se ci penso. “Non soffri di Atassia”, mi rivelò la dottoressa “bensì di Distonia Responsiva al Levodopa. La tua malattia é un morbo raro, ma curabile. Basta una pastiglia al giorno di un farmaco chiamato Levodopa per tornare normali”.

Quelle parole non le dimenticherò mai. Provai una sensazione paradisiaca, una felicità incontenibile. Piangevo. Piangevo come mai avevo pianto prima. Presi subito quel farmaco e dopo appena qualche ora iniziai a camminare: mi parve un miracolo. Ogni giorno andava sempre meglio. La sera, prima di addormentarmi, pregavo Dio che non fosse solo un sogno. “Ti prego, Signore, domani fammi alzare da sola dal letto come stamattina”, chiedevo.

“Fa’ che sia tutto vero”. Temevo che questa felicità potesse svanire da un momento all’ altro: invece, ogni mattina, mi svegliavo e stavo meglio della sera precedente.

Dopo sette mesi di riabilitazione per i miei muscoli, fermi da troppo tempo, le mie gambe per la prima volta sono diventate normali, muovendosi come quelle delle donne della mia età.

Proprio come se, sulla sedia a rotelle, non ci fossi mai stata».

Qual’é stata la sua reazione a quell’improvviso, meraviglioso, cambiamento di programma?

«Dopo tanti anni trascorsi ad andare in montagna sulle spalle degli altri, ho deciso che dovevo dare una mano a chi soffriva. Poi ho realizzato il mio grande sogno: aiutare i bambini delle missioni. E sono stata volontaria in Kosovo per due settimane. Adesso, assieme all’ Associazione “Mato Grosso” andrò presso le missioni brasiliane. Anche lì voglio aiutare i bambini: io sono stata fortunata, ma c’è chi lo è molto meno di me, chi deve soffrire per tutta la vita, per una ragione o per l’altra. Questo l’ho imparato dalla mia malattia e non voglio dimenticarlo».

Nessun rimpianto per il tempo perduto? Niente rabbia per quella diagnosi errata?

«Ho molti altri sogni da realizzare, tanta fretta di vivere, forse troppa, per lasciare posto ai rancori. Non posso farci nulla se hanno sbagliato la diagnosi, sono cose che càpitano. Adesso mi sento felice. Prima di partire per il Brasile, però, voglio ringraziare Dio facendo a piedi il Cammino che porta al Santuario di Santiago de Compostela, nel Nord della Spagna. Con queste mie gambe “nuove”.

Paola Fucilieri